Cos’è la vita di un giovane trentenne italiano se non un’attesa paziente?
È come il “pendolo di Schopenhauer” che oscilla tra la noia e il dolore e che non risparmia affatto i giovani italiani.
Basta visitare un famoso sito di lavoro per comprendere che l’identità che la società pretende non è fatta di esperienze di vita, emozioni o sensazioni. La differenza tra la vita social e quella reale è ormai così sottile da creare un divario troppo grande tra quelli che sui social possono scrivere la propria professione e altri che silenziosamente inventano un proprio ruolo, della serie” esperto in consulenza aziendale presso me stesso”. Ancora vi sono i “senzatetto invisibili del web” che, da mostrare sulla vetrina social, hanno solo una foto sorridente; indossano il vestito della seduta di laurea, quello che i genitori gli hanno comprato con tanti sacrifici e che li fa sentire degni Dottori. Per questa tipologia di trentenni social niente lavori inventati, poiché semplicemente orgogliosi del traguardo raggiunto.
Poi c’è anche chi ce l’ha magicamente fatta. Si mostra sorridente e occupa una posizione aziendale così strana, così difficile da comprendere che è quasi ovvio pensare che deve essere un ruolo meritevole di rispetto. A quel punto pensi che ne deve essere valsa la pena abbandonare tutto, cambiare vita, senza voltarsi indietro. Anche qui vorrei sfatare un mito. Mi capita spesso di sentire miei coetanei, migranti in carriera, dubbiosi. Essi, pur essendo felici di un ‘occupazione brillante, con grande nostalgia, dicono che ritornerebbero subito lì, dove tu non comprendi più nulla, lì dove la tua vita si sta sbriciolando, nei luoghi in cui non riesci più a divertirti perché afflitto dai troppi pensieri, lì dove le tue competenze sfumano per lasciar spazio all’ozio.
A quel punto ti chiedi, la società sta forse mettendo tanti giovani di fronte ad una scelta dolorosa? La carriera o la famiglia e le proprie origini?
Bene, anche nella realtà, non solo nel social di lavoro, esiste un’etichetta.
Sei troppo Choosy se non ti accontenti facendo lavori sottopagati, sei un fannullone se non vai all’estero, ancora sei un visionario se pensi di dare scosse ai datori di lavoro non accettando l’inaccettabile e infine sei poco realista se pensi di fare una famiglia senza garanzie.
Continuare ad essere utili alla società solo in base al ruolo ricoperto significherebbe a lungo andare ad inserirsi in un pericoloso gioco, in cui un soggetto che non ha un ruolo lavorativo è automaticamente il nulla per la società. Da ciò emergerebbe un altro pericoloso gioco che di ludico non ha nulla, ha solo il sadico sapore amaro della cattiveria, ovvero il gioco di ruolo “carnefice-vittima”, per cui se dal ruolo di vittima si vuol emergere si deve automaticamente diventare carnefice, magari di sè stessi, mettendo a tacere le proprie emozioni.
Ovviamente ci sono persone felici di inseguire solo la carriera a tutti i costi e sono sicuramente meritevoli di rispetto, tuttavia mi piacerebbe immaginarli ospiti di una puntata introspettiva del Maurizio Costanzo show tra trent’anni. Sugli schermi passano immagini di momenti di gloria lavorativa e alla fine Maurizio chiede se vi sono rimpianti.
Lascio all’immaginazione anche le risposte.
di Luana Martino